Archivi Impossibili

Gli archivi degli artisti contemporanei | Elisa Fulco

Archiviare tutto, è un sogno antico. L’impulso archivistico ha guidato e accompagnato la storia dell’uomo sin dalle origini, spingendolo a collezionare e a dare forma al desiderio di conoscenza, ad inventare sistemi per ordinare, trattenere il ricordo, controllare e mettere in scena il sapere: atlanti, mappe, liste, alberi della conoscenza, schedari, musei immaginari, hanno popolato da sempre il mondo degli artisti e degli storici dell’arte, un’attitudine che è proseguita anche nel Novecento: dall’Atlante delle immagini di Aby Warburg degli anni Venti, all’archivio-atlante di ritratti fotografici degli uomini del XX secolo, divisi per mestieri, di August Sander degli anni Trenta, al progetto enciclopedico dell’artista tedesco Gerhard RichterAtlas”, portato avanti dal 1962 al 2013: un atlante visivo composto da più di 8.000 fotografie in cui l’artista ha schedato e fotografato tutte le iconografie a supporto della sua opera pittorica (immagini, schizzi, giornali), come testimonianza in presa diretta della sua stessa vita. Dalla mostra pionieristica Documenta 11 di Kassel del 2001, a cura di Okwui Enwezor ad Archive Fever. Uses of documents in contemporary Art, curata anch’essa da Okwui Enwezor, nel 2008, alla prossima Documenta del 2022 (con la presenza del Black archives), l’approccio documentale è diventato centrale nel riscrivere gerarchie e geografie artistiche (sempre più spesso si parla di modernità multiple), che hanno provato a decolonizzare il museo e l’archivio mettendone in discussione il valore di testimoni imparziali, includendo di volta in volta opere e artisti rimasti fuori dal sistema dell’arte. Il modello curatoriale adottato ha fatto coincidere la pratica archivistica del conservare e descrivere con quella espositiva, sancendo il passaggio dall’archivio come custode di documenti ad attivatore di storie (e di contro storie, basti pensare al progetto espositivo Disobedience Archive di Marco Scotini). Di fatto sono tanti gli artisti contemporanei che hanno trasformato i documenti in vere e proprie opere d’arte in forma d’archivio (Hanne Darboven, Marcel Broodthaers), usandole come metafore e potenti dispositivi narrativi. L’estetica dell’accumulazione, della tassonomia e della wunderkammer proposta dagli artisti ha avviato un processo di “artificazione” e un'”archivio mania”, che ha contagiato differenti ambiti disciplinari, aprendo la via a nuove forme di valorizzazione, ma anche di ibridazione tra archivio e museo.

La moda, il design, e la stessa cultura d’impresa, sono ricorsi all’estetica dell’arte contemporanea (ai suoi dispositivi installativi), per enfatizzare e mettere in scena il documento, trasformandolo in elemento di racconto in cui spesso convivono il vero, il falso e il verosimile (le mostre di Loewe, Dior, Esselunga). L’arte contemporanea, in fondo, ha disinnescato quella che la studiosa Aleida Assman in “Ricordare” chiama la “memoria funzionale” – descrittiva, lineare – attivando una “memoria archivio” una sorta di memoria potenziale, a disposizione dei futuri interpreti, dando vita a contro archivi, ad “anarchivi”, ad “archivi impossibili”, come li ha definiti Cristina Baldacci nel suo saggio dedicato all’ossessione archivistica degli artisti contemporanei. Un impulso archivistico che è stato accelerato dalla smaterializzazione dell’arte, avviata già negli anni Settanta con la svolta concettuale che ha reso necessario documentare l’idea progettuale come traccia del processo creativo; un’attitudine che è stata spinta oltre che dalla dimensione digitale, dal cambiamento di supporti e di linguaggi dell’arte che ha spinto ad ampliare e a ripensare lo spettro di ciò che è archiviabile e riattivabile in futuro (reenact): odori, suoni, rumori, potrebbero dare vita a degli archivi dei cinque sensi in grado di ricreare l’esperienza sensoriale dell’opera nel tempo? L’archivio del gesto del danzatore e coreografo Virgilio Sieni, il cui corpo diviene memoria ambulante, nelle azioni performative affida già la trasmissione del sapere al passaggio del gesto da corpo a corpo.

Per riflettere sui temi e la complessità metodologica e interpretativa sollevata dall’archivio d’artista nel suo essere contemporaneamente opera d’arte e oggetto di conservazione, il caso dell’Atlas di Gerard Richter ne rende leggibili le diverse valenze: forma d’arte autonoma; racconto del processo creativo; “oggetto”, spesso effimero, composto da elementi differenti dal punto di vista conservativo; garante dell’autenticità e del valore economico. Un’eterogeneità che inevitabilmente sfugge al sistema di catalogazione tradizionale, la cui “multidimensionalità” spinge a descrivere e collegare i mondi per chiarirne il senso e rendere leggibile il contesto attraverso le relazioni tra le parti. Diversamente dagli archivi di impresa, in cui c’è stato un presidio forte da parte della comunità archivistica, con numerosi manuali che tracciano le linee guida di intervento, per uno strano paradosso sono pochi gli studiosi che hanno dedicato studi alla catalogazione, descrizione e conservazione delle opere d’arte contemporanea, e alla stessa manutenzione dei dispositivi archivistici che hanno valore artistico; pochi gli studi sui materiali sempre più effimeri di cui sono composti e carenti gli

accordi istituzionali per rendere accessibili e ben conservati gli archivi d’artista, per lo più gestiti da privati (famiglie, fondazioni); desta sorpresa inoltre che sia nell’ambito etnoantropologico che nel mondo dell’impresa sia stata data grande rilevanza alla trasmissione orale e alla registrazione di testimonianze video e audio (la memoria del lavoro, delle tradizioni), mentre nell’arte contemporanea appare carente la raccolta di fonti archivistiche che mirano a collocare e a situare l’artista e l’opera nel tempo. Va in questa direzione il progetto “Arte Povera domani. Archivio di memoria orale e di conservazione”, che propone una metodologia conservativa che dà rilevanza anche alle fonti orali, valore alla voce degli artisti, alle testimonianze, raccontando come l’opera dovrà essere allestita, mantenuta in vita e fruita (o distrutta) in futuro, al di là della stessa scheda OAC, prevista dall’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione. Se la parte descrittiva dell’archivio di un’artista può infine ricadere in un sistema di catalogazione sufficientemente ampio per accoglierne i rimandi e le derive, resta invece indomabile il messaggio spesso evocativo e contraddittorio che gli artisti, “acrobati del tempo”, lanciano ai contemporanei e alle prossime generazioni. Carla Benedetti nel saggio “La letteratura ci salverà dall’estinzione”, fa riferimento a due differenti funzioni; quella dell’enunciare e del suscitare. L’arte che mobilita le idee, quella in grado di “suscitare” il cambiamento, di aprire nuove strade e liberare energie, sta dalla parte degli artisti: i dispositivi “inutili” in tempi di crisi sembrano più efficaci del diritto e dell’economia.