Decolonizzare il museo

E archiviare senza pregiudizi | Elisa Fulco

Bianco, etero, borghese, per lungo tempo il museo ha perpetrato una visione etnocentrica e gerarchica del fruitore ideale delle sue collezioni, in cui l’arte eu- ropea ha rappresentato la norma se non il canone, la misura con cui leggere le altre culture.

Rimediare e decolonizzare sono due pratiche che hanno spinto la museografia ad estirpare dalle proprie collezioni lo sguardo etnografico che l’ha caratterizzata, liberando le opere dal filtro dell’esotismo e del colonialismo con cui sono state a lungo etichettate. Un tema affrontato di recente nel saggio di Giulia Grechi, Decolonizzare il museo. Mostrazioni, pratiche artistiche, sguardi incarnati, che racconta come dalla metà dell’Ottocento le Esposizioni universali, le raccolte d’arte primitiva ma anche le più recenti biennali di arte contemporanea hanno trasformato l’altro nel diverso, in un un soggetto di interesse in quanto minoritario.

Un cambio di prospettiva che chiede un ripensamento profondo del dispositivo museale che deve interrogarsi sulla capacità di rappresentare e dare voce a tutte le differenze (genere, etnia, orientamento sessuale, disabilità), proprio per avviare percorsi di “rimediazione”, di co-progettazione e di restituzione.

Il tema della diversità e dell’accessibilità acquistando centralità sta spingendo a ripensare la funzione prevalentemente sociale del museo, e a rivedere i criteri con cui sono state allestite la maggior parte delle istituzioni, prestando maggiore attenzione ai programmi espositivi (molte le mostre di arte, moda, design dell’ultimo anno dedicate a creativi di colore); adottando comunicazioni semplificate, allargando la base dei visitatori, con l’obiettivo di ricreare un maggiore senso di comunità, soprattutto nei confronti dei diretti eredi di un patrimonio culturale che spesso è stato sottratto con la forza, che invece di favorire percorsi di inclusione è stato usato per sottolineare differenze e stereotipi.

Una riflessione, nata già negli anni ottanta all’interno della antropologia, che ha messo in discussione la presunta neutralità di opere di provenienza diversa, spesso presentate come prive di un loro specifico contesto originario, evidenziando le relazioni di potere alla base di politiche di acquisizioni e le forti asimmetrie nelle interpretazioni delle collezioni.

Si deve in particolare allo storico e antropologo americano James Clifford, l’avere teorizzato l’impossibilità in un mondo globalizzato di pensare alla cultura come qualcosa di puro e incontaminato, mettendo in dubbio lo stesso concetto di autenticità. Come tenere insieme l’oggetto formale, spesso classificato come artistico e la sua funzione reale (per esempio di attivatore di storie all’interno della comunità che l’ha prodotto), o come rappresentare e archiviare il materiale raccolto, ascoltando la voce di chi è il depositario di memorie e di riti, è una sfida ancora aperta che pone al centro un sistema di relazioni capace di restituire la complessità del patrimonio culturale, frutto di un’intersezione costante tra le culture.

Giovanni Michetti, professore dell’Università Sapienza di Roma, in occasione di un’intervista per Hyperborea, ha sottolineato che quando si parla di inclusione e di giustizia sociale è necessaria una riflessione teorica e una modellizzazione che permetta di progettare ex ante i concetti che si intendono trasformare in pratica (la stessa classificazione di genere maschile e femminile può non essere più rappresentativa di identità gender fluid), proprio per evitare di conservare insieme ai dati anche i pregiudizi. Si tratta di un processo lento e profondo, a tratti doloroso, che ha subito un’accelerazione in anni recenti con l’attivismo delle comunità LGBT e del movimento Black lives matter, che si è tradotto in vere azioni di protesta. Nel 2018 il collettivo di attivisti americani Decolonize This Place ha denunciato con un video su YouTube la mancanza di politiche inclusive del Brooklyn Museum di New York, utilizzando una scena del film Black Panther di Ryan Coogler, in cui per la prima volta il super eroe è africano. In visita al museo, il protagonista si interroga in maniera retorica se gli oggetti esposti siano stati acquistati legittimamente o siano frutto di violenze perpetrate dagli Europei in Africa durante l’epoca coloniale.

Una protesta indirettamente incoraggiata dalla scelta del Presidente francese Macron che nel 2017 si è impegnato nella restituzione graduale del patrimonio africano all’Africa, avviando una riflessione che ha coinvolto diversi musei internazionali che oggi mirano a trasformare l’istituzione museale in un luogo di attivismo politico: “spazio di contatto” dove fare incontrare persone di una stessa cultura con origini diverse che si trovano ad attribuire senso e significati differenti allo stesso patrimonio.

Una visione che collima con il riconoscimento Unesco della diversità culturale (2005), che sostiene l’interculturalità, la valorizzazione di tutte le culture senza gerarchie e l’accessibilità da parte di tutti del patrimonio come bene comune.

Il niente su di noi senza di noi”, che nasce come rivendicazione da parte della comunità dei disabili, ha mostrato come si continuino a perpetrare forme di esclusione culturale, in cui la partecipazione non è mai veramente tale se le diverse minoranze non possono essere esse stesse agenti di cambiamento, leader e attivisti. Un approccio in cui ancora una volta diventano necessarie forme di collaborazione che aiutino a “situare” nei contesti le dinamiche tra le persone, decolonizzando il museo ma anche accettando che “i frutti puri impazziscono”, che la cultura è spesso un invenzione identitaria. Lo stesso attivismo digitale, che ha subito un’accelerazione durante il covid, sta contribuendo a disintermediare la comunicazione, a dare voce e a includere persone normalmente escluse dai processi culturali, creando relazioni personali e autoriali con lo stesso patrimonio.

L’esperienza della Living Library, avviata nel 2000 in Danimarca, racconta proprio di come sia necessario trasmettere i diritti e le discriminazioni attraverso la testimonianza diretta delle persone (profughi, detenuti), trasformati essi stessi in archivi viventi di storie “da prendere in prestito”, mettendo in discussione la definizione di partecipazione culturale o audience engagement, che tende a riproporre un modello gerarchico di intermediazione, in cui spesso è assente la voce dell’altro, accogliendo e facendo spazio a quella che è stata definita dalla Bishop Multiple modernities: il riconoscimento di uguale valore alla compresenza di esperienze artistiche che accadono nello stesso arco temporale, che si è tradotta per esempio nella scelta della Tate Modern di Londra di raccontare dal 2000 tematicamente la propria collezione cancellando ogni gerarchia.

Proprio per questa ragione, molte delle recenti scelte museografiche hanno optato per narrazioni diacroniche e tematiche. Il Depot del Museo Boijmans di Rotterdam, appena inaugurato, ha scelto per esempio di rendere fruibile il deposito delle 150.000 opere conservate, presentando l’archivio con un avveniristico progetto architettonico firmato dallo studio olandese Mecanoo. Esposte in base ai materiali (legno, carta) e ai criteri climatici di conservazione, le opere sono accostate in modo “casuale” e mostrate nelle nelle diverse fasi di vita (incluso i momenti di restauro), dando una nuova centralità al museo come archivio volutamente neutro e trasparente.